domenica 8 agosto 2010

Horcynus Orca romanzo di stefano d'arrigo

Horcynus Orca trionfo della grande digressione sulla parabola del sud: sinossi d’istigazione alla lettura

Horcynus Orca lo vidi nel febbraio del 1975, nella sua prima edizione, troneggiare in diverse copie nella vetrina della libreria Marzocco di Firenze. Mi colpì lo spessore del volume e diffidai subito della sua qualità perché, fresco di studi di greco antico, mi ricordavo che il poeta Callimaco sosteneva che un grosso libro nasconde sempre l’insidia di un grosso malanno (méga biblìon mèga kakòn) e comunque non avrei potuto permettermi di comprarlo perché a quei tempi la cifra di 7.500 lire, era per me proibitiva.
Andrea Di Consoli, un amico di quelli giusti, di quelli che sono radicati nella storia della letteratura meridionale come un fico selvatico in un muro a secco, mi ha ricordato che è uno dei romanzi più importanti della letteratura italiana: un vero amico.
Quando ne ho visto una copia nella libreria Simon Tanner di Roma è stato automatico prenderla. Ricordavo una copertina blu e invece la pagina è bianca, incorniciata da una fascia blu su cui campeggia l’ostico titolo Horcynus Orca.
Non ce l’ho fatta a leggerlo subito. Ho dovuto aspettare un pomeriggio di calma, nella mia vita che è fatta di trasferte continue ed impreviste, per cominciare a leggere le prime pagine con una tensione che non prometteva nulla di buono.
Nel film Tutti a casa si racconta la vicenda di un gruppo di soldati sbandati che cerca disperatamente di ritornare a casa. Il film termina proprio quando uno di questi soldati, interpretato da Serge Reggiani, viene colpito a morte in prossimità della sua abitazione, alla periferia di Napoli.
Horcynus Orca, seguendo le orme disordinate di Ndrja Cambria, nel suo accidentato viaggio di ritorno a casa, riprende il racconto proprio là dove finisce Tutti a casa
Benchè il romanzo di Stefano D’Arrigo abbia uno degli incipit più portentosi che io abbia mai letto, a pagina 13 mi sono fermato, non tanto perché già avevo perduto il filo dell’incipit e smarrito le orme di Ndrja Cambria, il marinaio che ci introduce nella storia con uno sguardo che supera la linea dove si confonde il mare con il cielo, ma perché forte era in me lo spaesamento, lo sperdimento nello sciacquìo perpetuo del mare, in quell’infinito languore che ti assale quando al tramonto l’acqua, quell’acqua meticcia fatta di Tirreno e Jonio che s’ intorbida nel canale di Sicilia, ha il colore di una bestia macellata e subito decolora per diventare nero seppia.
Beninteso, pur comprendendo di trovarmi in quel crogiolo di acque omeriche che fanno galleggiare le terre di Calabria e Sicilia, mi sentivo perso, come un profugo africano o d’Albania che non riesce a vedere l’approdo. Ho dovuto ricominciare e ritornare fino a pagina 13 per altre due volte (e non è escluso che lo faccia di nuovo), poiché ad ogni rilettura prendevo sempre più confidenza con i luoghi, tanto da sentirmi sempre più di quel posto lì: ho dovuto tirare fuori tutto il mio senso di appartenenza ai luoghi del sud per poter continuare nella lettura.
Ed è la prima cosa che ho inteso: è un libro che richiede un processo di identità e appartenenza, e allora sì, ti concede di sguazzare in un mare sconfinato e ricco, che è il linguaggio di cui si nutre: quello del sud, quello del sud più a sud del sud come dice Vito Riviello, con i suoi idiomi, assonanze, giochi di parole, onomatopeie, francesismi, neologismi.
E se la lettura di questo libro non fosse proprio la metafora di un tuffo nel brodo primordiale, di un lessico familiare e antico? Perché è comunque una catabasi, un viaggio nel profondo, dove la meta finale è secondaria al viaggio stesso. Forse proprio per questo, non appena ti adagi nell’invenzione linguistica la storia è pronta a sgusciare dalle mani come anguilla di fiume, oppure perde il nesso o non ha più importanza.
Certo è che l’apparizione delle femminote, donne navigatrici del Paese delle Femmine, intriga la nostra fantasia. Sono paranze di donne ambulanti che dalla Calabria portano di tutto in Sicilia e da essa tornano cariche di sale, di avventure, e di eros come confessa una di loro, raccontando incontri sensuali con uno sconosciuto che si nasconde in sala macchine (tanto che di lui non si conosce il volto e si dice che possa essere uno di quei semidei che vanno a spasso nello stretto fra le due terre). Le femminote, hanno trascorso la loro vita sui ferribò, nei cessi dei traghetti hanno tenuto il conto dei loro cicli, sulla poppa hanno sgravato figli, hanno maledetto e desiderato uomini: il ferribò è stata la loro casa vera, il loro campo di battaglia, il letto galleggiante, ma ora che i ferribò Scilla, Cariddi, Aspromonte sono stati affondati, e che le femminote non possono più passare sulla sponda dell’isola per il loro contrabbando da strapazzo, alcune di loro risalgono la Calabria straviate come balene piaggiate: sembrano soldati allo sbando, come Boccadopa e compagni e come lo stesso Ndrja Cambria, che discendono verso lo scill’e cariddi, ignari che non sarà possibile traghettare.
Solo dalle femminote può partire il lamento funebre per l’inabissamento del ferribò, rimpianto come un parente, una persona cara che lascia questo mondo, per colpa delle bombe alleate. E’ anche per questo che le femminote usano come orinale la cavità di un medaglione con l’effige di Mussolini, primo responsabile della guerra.
Con le femminote troviamo una fanciulla di una bellezza indescrivibile, matura e pronta per il pasto erotico dell’uomo, ma purtroppo la sua mente ha trovato rifugio nella pazzia, incapace di sopportare il dolore per un marito costretto ad andare in guerra, prima di consumare il matrimonio. Faglianza di cazzo uguale pazzia e solo un marinaio, come era il marito di Cata, la giovane e avvenente sposa pazza, solo un marinaio come Ndrja Cambria, che le faccia sentire il turgore della carne nelle viscere, potrà farla rinsavire: è la sostanza di una confidenza fatta da una femminota al marinaio, per incoraggiarlo a guarire la povera pazza.
Questo è il filo della storia che ho raccolto fino a pagina 55 e sono ubriaco di parole che mi ricongiungono ad una lingua mitologica affrevo, allionarsi, troffa, intinnere, filere, ontro, comarca, faglio avvulcanare, scialapopolo, aranciare, babbigno, checchiando, sboriare, accicognarsi, flaccata, svacantare, babbanacchia, olivara, funeraglia, sdiregnare…
Probabilmente se in fondo al libro ci fosse un piccolo glossario per chiarire che sdiregnare vuol dire perdere possesso, che faglio è sinonimo di privo, avvulcanare è eccitare, che la credenza non è un mobile ma diceria, pettegolezzo, certo la lettura sarebbe accessibile anche a chi non appartiene al sud più a sud del sud e potrebbe agevolmente godere di questo suk sontuoso, sovrabbondante e lussuoso, anche fino alla stucchevolezza, di termini e accezioni linguistiche inventate, ritrovate, restaurate.
Ho il sospetto che in questo lingua, fuoco d’artificio ricco di colori, disegni e suoni, abbia attinto a piene mani uno scrittore come Camilleri e voglio augurarmi che, proprio grazie al suo successo di vendite, si sia consolidata nel lettore medio italiano la comprensione e il godimento per una lingua reinventata. Perciò una riedizione di questo libro potrebbe finalmente farlo approdare a quella fortuna che non ha mai avuto in occasione della sua prima uscita.

Per ora il marinaio Ndrja Cambria è il protagonista della storia. Lo seguono passo passo soldati allo sbando come Boccadopa e compagni, convinti che il marinaio li aiuterà a fare esodo. Nel frattempo essi attraversano spiagge, fiumare, pietraie e paesi, dove ci sono solo donne e bambini in attesa che i loro uomini tornino dalla guerra: e non possono fare altro che offrire ai nostri sbandati il conforto di un bacile e la lavatura dei piedi, troppo offesi dal lungo cammino del ritorno.
Dietro una duna, il marinaio sorprende due donne, una madre e una figlia seminude, che godono del bacio rovente del sole: attendono che asciughino gli abiti scuri di un uomo. Di lui hanno solo gli abiti, e sembrerebbe una veglia funebre, tanto esse ne agognano il corpo. Sasà, il povero figlio fratello delle due donne, sarebbe diventato quasi vescovo se non fosse anche lui una vittima della guerra che fa impazzire tutti, Ora ha abbandonato gli abiti talari e come un pezzente si aggira sulla costa di Cannitello. Si ferma a guardare la sponda opposta, spera che un Mosè arrivi all’improvviso, lo aiuti a fare esodo e raggiungere in Sicilia una persona cara, che lo fa agognare: si dice che di questa persona uomo o donna,( l’autore ci lascia nel mistero), qualcuno abbia visto una sbiadita fotografia. Ma chi sarà il Mosè che farà traghettare sulla sponda siciliana il povero Sasà, che con la stessa disperazione del felliniano Ciccio Ingrassia che grida sopra un albero lamentando la sua solitudine e agognando una donna, così disperatamente desidera abbracciare una persona cara, che l’aspetta sulla spiaggia di Cariddi?
Tutto lascia supporre che sia Ndrja Cambria il designato.

Non meno drammatica la figura di un povero pescatore che si è indebitato per comprare una barca e che se l’è vista sequestrare dai tedeschi. E’ rimasto con i debiti da pagare, e deve sbarcare il lunario con un cavallo trovato sulla spiaggia, che ha perso il suo cavaliere chissà dove. Sulla spiaggia cerca carogne di delfini, che vende per tonno agli affamati dei paesi di montagna.
Del resto il cammino di Ndrja Cambria, lungo le spiagge che da Vibo Valenzia, Gioia Tauro e poi Tropea conducono a Palmi e al Golfo dell’Aria, è disseminato di carogne, vittime delle bombe e delle mine. Proprio in una delle spiagge del Golfo dell’Aria, il nostro marinaio incontra uno strano vecchio vestito da militare con un cappello inglese, una giacca tedesca e pantaloni da carabiniere. Anche questo vecchio e strano soldato è costretto a fare di necessità virtù, raccoglie le carcasse dei delfini e le fa seccare al sole per fare una riserva di cibo.
Veniamo a sapere che i delfini sono, fra gli abitanti del mare, le vittime maggiori di questa guerra e sono anche i più odiati dai pescatori, perché la loro carne è tigliosa e puzzolente e perché con la loro forza agile strappano in continuazione le reti.
Ndrja vuole sapere dal vecchio soldato se sia possibile passare con qualche barca in Sicilia. Il vecchio gli confida che, grazie alla sua avvenenza e al suo fascino, potrà convincere una femminota ad attraversare lo stretto. Le femminote, anche col mare che è diventato una pozzanghera di sangue e nonostante la scomparsa dei ferribò, sono riuscite sempre a passare sull’altra sponda, a prendere il prezioso sale da contrabbandare. Hanno certamente qualche barca nascosta fra le dune, prova ne siano le strisciate trovate sulla spiaggia che altro non sono che orme di barca. Per avere un passaggio bisogna entrare nelle loro grazie, bisogna far breccia nel loro cuore di donne, aprire la giara della loro sensualità e soddisfare il loro bisogno di carne giovane. Qualità che non mancano a Ndrja Cambria. E dopo aver aperto gli occhi al giovane, il vecchio, che pare un re solitario del solitario regno delle dune, seguendo il calare mortale del sole, si copre di sabbia e si fa tutt’uno col suo regno.

Immergendomi nella ricchezza delle felici invenzioni linguistiche di questo libro, ho il pensiero che la lettura debba procedere proprio come in un combattimento tra un pescatore e uno spada, che è stato agganciato all’amo: a volte si va spediti, come quando l’animale è in acqua e il filo scivola e con esso anche la barca, ma quando la lenza si tende per accorciarsi e il pesce salta e le energie paiono sprecarsi in una lotta estenuante senza l’ombra di una fine, allora bisogna andare con cautela, dispensando le forze, senza nulla sprecare, conquistando rigo dopo rigo, parola dopo parola, perché si ha a che fare con densità linguistiche di rara potenza espressiva ed è un peccato ingoiarle velocemente le parole, senza avergli fatto fare un sontuoso giro in bocca, assaporandone, come per un vino prezioso, gli odori, i tannini originali, l’acidità, la dolcezza. Si, bisogna masticarle piano piano, farle depositare con la giusta lentezza e sentire il tonfo della loro densità. E allora leggendo fino a pagina 120 ci si imbatte in babbanacchia, rimmignonirsi, sfrancesare, juvenello, intrallazisti, apparolarsi, incotturiamento, tuppo, ticchio, tradimentoso, accimentare, faccitta, sblasata, melonare, scialibi, bontatosa, impupillare, alliffata, grandannivola, incarcassare, impallatizzo, inca follare, e via cosi italianizzando dialetto, dialettizzando italiano, italianizzando francese e inglese e contaminando il tutto con assonanze saracene.
C’è da stare sicuri che l’autore non si risparmia nel racconto e, se deve descriverci la barba di un marinaio, un occhio, o il gioco acquaria di un delfino, non si accontenta di regalarci due o tre attributi, ma per lo meno deve prendere il largo in una pagina intera, con un respiro ampio, come se fossimo in un incipit interminabile di Wagner.
Ndrja Cambria ha abbandonato il vecchio marinaio che, come una fiera selvatica, al tramonto si è insabbiato per affrontare la notte e giunge finalmente al Paese delle Femmine, sullo scill’e cariddi proprio sulla linea dei due mari Tirreno e Jonio. Il paese è fetido, pieno di fumi pestilenziali per via delle femminote, che non fanno altro che cuocere carne di fera, quella di delfino, e condirla con aceto e aromi forti, per addomesticarne il sapore aspro di animale selvaggio. Tutto il paese non è altro che un ossario di carcasse di delfino maleodoranti, putride. E proprio in questo inferno, guardando le carcasse, che non hanno pesantezza, ma sembrano leggere imbracature di aquiloni, si può capire perché i delfini abbiano la grazia di incurvarsi più delle onde del mare e possano anche sfidare la leggerezza delle nuvole. Tutto si capisce di questi animali, che spesso muoiono per ingordigia e che sono sfrontati, superbi e sbruffoni, tranne quando si rifugiano dietro un ridosso protetto per mettere al mondo i figli. Di loro si sa tutto, che campano almeno fino a trent’anni e che poi misteriosamente scompaiono, spariscono. Forse quando è giunto il momento, i delfini, angeli che per la loro natura demoniaca furono tramutati in bestie di mare, che non amano la decomposizione della propria carne e preferiscono l’incenerimento, raggiungono l’isola di Vulcano e si tuffano in una grotta sotterranea, per passare direttamente dall’acqua al fuoco e scomparire per sempre. Non muoiono semplicemente, diventano acqua di mare: un mistero curioso quanto la nascita delle anguille che, tutto a un tratto, riempiono il mare dei loro bianchi neonati, ma non si sa dove depositino le loro uova. Un professore di Messina che conosce i pesci meglio di un pescatore, pagherebbe con un orologio e marenghi d’oro, un’anguilla con il ventre pieno di uova (anguilla implenata) per poterla studiare.
E l’oro scintilla a pagina 160.

Era stata intorno al ‘35 la spaventosa riproduzione di queste fere, che seguivano le navi, che facevano va e vieni dall’Africa, cariche di camicie nere. La notte i pescatori sentivano quelle bestie, che sfottevano con le loro risatelle sfingiche, ben sapendo che il giorno dopo avrebbero fatto il dispetto di sciupare le palamitare ai pescatori di Cariddi. Ndrja Cambria non può dimenticare quante reti siano state sciupate: reti prese a prestito, reti da pagare con cambiali mensili, che si tiravano su, ridotte a scempio e con i pesci tutti smembrati dalle bestie del mare. Poteva anche capitare che navi militari, cariche di centurioni boriosi, si fermassero e pretendessero pesce pregiato, quando loro avevano solo gli occhi per piangere e allora non si capiva chi era peggio: la bestia di mare o quei prepotenti caccoloni vestiti di nero, che gridavano eia eia, scoreggiando a controcanto.

In questi giorni, marzo maramaldeggia con i suoi sprazzi di sole nevrastenico e nuvolaglia minacciosa, che si sgonfia di rovesci improvvisi, accompagnati da scomposte folate di vento. Quando mi sveglio la mattina e vedo questo cielo incazzoso che promette di rovinarti il buonumore, io sento di avere un asso nella manica, il toccasana ad ogni feroce tentativo di castigo: è la sensazione di beatitudine che si ha quando si incontra un libro che ti piace e che ti accompagna con la dedizione di un cane fedele. Non c’è niente che possa scaraventarmi nella depressione o nel malumore, perché ho questo libro, che in ogni pagina riserva una sorpresa, un motivo per cui vale la pena di essere letta. Sono a pagina 240 e sono felice di sapere che ne ho ancora mille da leggere, almeno mille sorprese, mille motivazioni per risvegliarsi ad un nuovo giorno. E’ solo questione di scrittura che sa legare gli occhi e la mente alla pagina, è solo questione di cattura, perché in fondo in fondo, fino adesso, è successo soltanto che Ndrja Cambria ha raggiunto lo scill’e cariddi e il romanzo non è stato altro che una serie di fortuiti incontri nella corsa verso sud, tra carcasse di delfini e ricordi di remi affondati nelle acque bastarde dello stretto.
Da quando Ndrja Cambria è arrivato al Paese delle Femmine, che sembra uno sconfinato ossario di fera, dove la sabbia non si capisce se sia sabbia o polvere di ossa tritate, lo scrittore apre un lungo inciso, da pagina 152 a 288, di memorie, ricordi, sogni, favole, che vedono come protagonista la fera. E’ proprio grazie a questa lunga e generosa digressione che impariamo a conoscere questo animale, che con le sue evoluzioni disegna la linea della vita di Ndrja Cambria e della sua famiglia. Alle volte, si ha la sensazione che la scrittura proceda tra barocchismi e digressioni superflue, eppure la lettura scorre spedita e gustosa, non senza dosi massicce di ironia, pur nella luttuosa vicissitudine della guerra. Si legga con quanto sarcasmo descrive le figure dei fascisti, dei loro comandanti, dei loro pensieri ottusi.
Le sorprese maggiori vengono dalle trovate linguistiche, dall’invenzione felice di una parabola magnifica che si trasforma in suono puro: mosciame fottisterio, notturnante inncascettarsi, annordare, aggallare, arcalamecca, buffonare, riconco annuvolato, affiumarato, pomponelleggiare, teatranteria, porcariosa, comodisti, scioffère, scianza, caloma, aggattarsi, maganzese, cocottiare, promenando,
e poi ancora piritolla e piritara sprudente per la fera, quell’animale diabolico, quella doppia puttana lurida e ladra e traditora, che da altre parti chiamano con un nome che la fa sembrare una bestia diversa da quella che è: delfino. Da fera, delfera, delfifera, e infine delfino, ma quest’ultimo è un nome che non si addice all’animale che porta sciagura, che fa piangere famiglie intere, distruggendo reti e pesci e per di più se ne strafotte alla grande. Nel ricordo di Ndrja Cambria, con quel falso nome di delfino la chiama un gerarca fascista che, a petto nudo e con una vocina stramba, minaccia la loro barca e intima di liberare a mare una fera catturata per riscuotere la taglia che è stata messa su di loro dalla Capitaneria. E delfino la chiamava anche il guardiamarina veneziano Monanin, che era sulla corvetta militare in navigazione dalla Maddalena a Livorno: non si capacitava che una creatura così giocherellona e smorfiosa potesse essere chiamata fera dai pescatori dello stretto. Lui, che se ne andava in solluchero appena vedeva i delfini e non faceva altro che fotografarli nelle loro evoluzioni acquatiche.
Per Ndrja Cambria delfino è nome troppo elegante e bello per una fera feroce che, se non fosse la nemica numero uno dei pescatori, una vera e propria grandannivola, sarebbe anche divertente, capace di dare spettacolo e far divertire una corvetta intera, scherzando con la prua, danzando sulle onde e scoreggiando nell’aria, esibendosi con la consapevolezza di una consumata soubrette. Come lo era la feruzza di suo padre, che come tutti i bambini dello scill’e cariddi ne aveva adottata una, che veniva a riva a giocare con lui e che era talmente intelligente da riuscire anche a parlare. Suo padre la chiamava Mezzagiornata perché si faceva viva sempre a mezzogiorno. Fu tragicamente uccisa da tre cacciatori che, non avendo colpito uccello, si sfogarono con Mezzagiornata che volava per l’aria proprio come un uccello. Il ricordo del mare, segnato dalla linea di sangue di Mezzagiornata, evoca immagini luttuose di bastimenti carichi di morti e dalle profondità di quel mare, tra sogno e memoria, sorge improvviso il ricordo doloroso di sua madre, morta per parto mentre aspettava che tornasse dal mare tumultuoso la barca che portava suo marito e Ndrja Cambria, alla prima uscita con i pellisquadre (pescatori dalla pelle dura come quella dello squalo)
Ed è ormai palese che la fera è la protagonista del romanzo.
Nel ricordo di Ndrja, la fera appare nel fulgore della sua dinamicità, ma nella notte di attesa, piena di fumi saturnini e putrescenti, la fera si manifesta come stendardo di morte, di carne che si consuma, di ossa che si disfanno. Non si possono neanche affondare le dita nella sabbia, perché non si trovano conchiglie, ma teschi, solo teschi di fera con i loro dentini affilati e con le ossa del cranio lisce, ambigue, minacciose, lugubri, nella livida notte, in cui solo le femminote hanno il coraggio di uscire per mare. Ndrja Cambria le vede silenziosamente varare in acqua e pensa a quello che gli ha detto il vecchio marinaio, che dovrebbe agguantarne una e farsi portare sull’altra sponda, ma non ha il cuore di farlo.
Non è un anabasi o la storia di un marinaio sbandato e neanche della fera o del delfino. Man mano che ci inoltriamo, restiamo intrisi di un untuoso sentore di morte. La morte salta, giocherella e danza sulle povere vite degli esseri umani e il linguaggio del romanzo continua ad essere da grande cerimonia:
Insalanito, gazzosara, mutangola, mortizzo, terribilio, matrasta, cuscuso, volandieri, madrone, pelliata, imboattare, cannamele, pietrebambine, malumbre, dolidoliare, magarico, incullare, dindindeggiare, ammammellato, svolontato, millunanotte, invenzio, ciuciuliare, sbordellato, iatttarello, appenarsi, paperiarsi…

Ndrja Cambria non sa proprio come potrà fare esodo, ma si sente chiamare da una femminota che parte da sola, con una barca leggera e veloce. Si chiama Ciccina Circè e nel buio pesto di quella spiaggia nera, appare sulla soglia di casa, con la sua lunga sagoma spettrale, una madredicecilia manzoniana che si porta dietro un fardello di morte. I due varano e la bara (chiaramente un errore di battitura, si tratta di barca, ma un errore per modo di dire) scivola senza difficoltà nell’acqua scura.
Siamo al momento fatidico che, come un profeta biblico, il vecchio marinaio aveva annunciato e la scena si carica di attesa sensuale. Ciccina Circè governa la barca spingendola nelle correnti giuste, senza fargli perdere il venticello propizio. Come un pifferaio magico, attira le fere con un suono ipnotico di campanello e quelle, incantate, si assiepano intorno al natante, trascinandolo nelle acque limacciose. Ciccina Circè non è Caronte, ma il viaggio che sta facendo è più simile ad una traversata negli inferi più che una semplice traversata tra Calabria e Sicilia. Inoltrarsi nel romanzo è come avvicinarsi sempre di più al significato della morte e a tutto ciò che la riguarda.
Nel frattempo la carica erotica della femminota si manifesta nel rumore del suo seno generoso e quando lei consente al nostro protagonista di affondare le mani nel bianco latte del suo seno e strusciarsi sui suoi fianchi, pare avverarsi finalmente la profezia del vecchio marinaio, ed io, che come lettore sono anche un voiyeur, provo invidia per Ndrja Cambria. Ma dietro l’erotismo di quel corteggiamento annunciato, si nasconde un’insidia. Ndrja Cambria dovrà far i conti con la fragilità di una donna che nasconde a mala pena la disperazione. Ciccina Circè suona il suo campanello magico, perché non sopporta quel mare pieno di morti, di inutili morti che galleggiano, quando la vita chiama vita, e la vita è tutta in quel prurito che fa strusciare un uomo e una donna. La femminota, ossessionata dai loro fantasmi, si serve dei delfini per evitare quei corpi martoriati di giovani vite, che galleggiano come foglie morte sulla linea dei due mari. Probabilmente uno di quei corpi appartiene ad un giovane che è stato il suo grande amore, e che chiamato a fare una stupida guerra, ora figura nella lunga lista dei dispersi.
La barca è arrivata sull’altra sponda. L’esodo si è compiuto e ora la femminota chiede la sua ricompensa. S’intana come una bestia nella sabbia, si distende e chiede a Ndrja Cambria il suo corpo pieno di vita. Lo pretende disperatamente, per scacciare, almeno durante l’intreccio dei due corpi, la morte e il lutto. Una scena di grande carica erotica, ma che si rivela anche tragica mortifera e disperata
Poi, con la stessa disperazione, ombra di donna in tormento, Ciccina Circè riprende la via del mare nella notte oleosa, come una figura che si appresta ad attraversare la porta degli inferi, lasciando Ndrja Cambria nei pressi della sua casa.

Non il fato, la provvidenza, il destino governano gli uomini, ma è la morte che trionfa su di loro. La morte e la pena di chi sopravvive con la disperata e inutile domanda del sopravvissuto: perché? Anche il padre di Ndrja Cambria non dorme: lo scopriamo a colloquio con la morte, che un giorno ha preso la vita di sua moglie. Sul letto un vestito di donna, come una sinopia, un guscio di cicala vuoto, a rinnovare un dolore che sconfina nella follia. Il padre sembra uno squalo senza la coda, che non fa più paura a nessuno, e consuma il suo destino, secondo la legge del mare, diventando pasto per tutti gli altri pesci. Stenta a riconoscere nel reduce suo figlio. Fa fatica a credere che proprio lui sia stato risparmiato dalla guerra, ma quando se ne convince, come un animale, lo annusa, lo tasta, lo esplora per sincerarsi che sia intero, sano e salvo.

La tragedia che tutti stanno soffrendo ha la faccia della fera. Dove c’è la morte, c’è la fera. C’era quando una bomba ha annientato un’intera famiglia scaraventando i corpi nel mare, c’era quando quattro vecchi pellisquadre, stanchi di essere inutili bocche da sfamare, sono scomparsi nel mare diventando pasto per le fere, c’era anche, col suo teschio ridente e sfottente, sul tavolo di una postazione marina di militi fascisti, morti chissà da quanto. Con la guerra, la distruzione e la morte, le fere di tutte le razze si sono date convegno nello stretto: angeli della morte, tortura perenne dell’umanità, come spiega in una lunga e didascalica escursione il Delegato di Spiaggia il signor Cama.
La guerra ha cambiato il mondo e persino un pellisquadra come suo padre è ridotto a cibarsi di fera: segno che la fame ha corrotto tutti, la fame che non è altro un mostro marino purulento con le sembianze della fera (ferame o famera), ma ora che il padre ha riconosciuto il figlio, ha bisogno di dirgli due parole per spiegargli che lui non ha perso la sua dignità di pellisquadra, al contrario di altri, che si sono rassegnati a cibarsi di carcasse di fera.
Suo padre ha mangiato la fera, per fame sì, ma non l’ha fatto pescando una carogna. Al contrario, armandosi di tutto punto per prenderne una viva, addirittura all’amo, come si conviene ad un vero pellisquadra che non ha perso il suo onore. Ed è andato a sfidarle nel loro territorio, proprio là dove erano più numerose, sapendo benissimo di cimentarsi in un duello impari. Lì, armato di un semplice coltellino, ha incontrato una fera di razza Grampo Grigio, la più potente e combattiva di tutte le fere, il gladiatore delle fere, che ha tentato più volte di disarcionarlo dalla sua barca fin quando, con il coltellino, non gli ha staccato la pinna dorsale, costringendola a ritirarsi, piangendo come un muccuso moccioso. Nonostante la sua eccezionale impresa, nessuno dei suoi amici pellisquadre lo ha accolto con una stretta di mano e il suo sdegno non ha confini.

Nel tempo della fera e della guerra, ogni essere vivente ha dovuto fare i conti con la perdita: di una persona cara, o della dignità, come i pellisquadre e c’è chi, come Federico Scoma, amico di Ndrja, che ha perso in guerra l’uso della mano: è tornato con una mano morta e vive con l’ossessione di non poter stringere la mano come una volta. Una frenesia, un desiderio che pare uno spasmo: una stretta di mano, una cosa semplice, ma necessaria.
Uno spasmo che Caitaniello può calmare stringendo forte la mano del figlio, ora che si rende conto che è veramente tornato e insieme possono finalmente addormentarsi e sognare.
Un sonno in cui ritorna la femminota, Ciccina Circè, forse figlia della maga Circe?, in ogni caso, una creatura particolare, che nella parte inferiore del corpo si copre di squame, si trasforma in sirena e si offre in un amplesso che sa di sale e di onda che avanza e si ritrae. Un amplesso che si trasforma in un rito, che genera un’ennesima metamorfosi: la sirena si trasforma in fera come immagine estrema della morte. Comunque la si giri e rigiri, anche il sonno è contaminato dalla costante presenza della morte.
Don Mimì che, per via della paralisi alle gambe, non va in barca ed è costretto a stare a riva a riparare reti, ami e calamitare, crede che le sirene non esistano solo nei sogni, ma che ogni tanto si fanno vedere in quello sputo di mare, in carne ed ossa, confuse con le fere. Racconta storie a vanvera sulla loro carica erotica e ammaliatrice, nonché sulla difficoltà di penetrarle, una volta che uno si trova visavì con una di loro. Povero Don Mimì, che non si rende conto che le sue sirene non sono altro che volgari foche baffute, che solo la lunga astinenza dei marinai può fare scambiare per sirene dai seni duri come conchiglie.
Ovarume,purpurrì, boccazziarsi, natamento, ravonchiato, bara ondose, granvisire, speranzaesi, spietrarsi, svetriare, azzardosamente, piace ruzzo, mozzone, fatterello, allianamento, lallara, ammignonare,sguarri,macula, flacco flacco, laidura, spuliciamento di mare, businisso, sciabachello, gladiare, cennare, scotrumbo, framassoni, sblasata, arcifanfaro, pazzo tondo, bomoatta, ranunchiarsi, baccalaro, decoltato, infrinzarsi e vedere e svedere e se il sazio capisse il digiuno il turco si farebbe cristiano, uno dei tanti modi di dire di cui il racconto si pasce.

Dunque, da quando Ndrja si è addormentato col padre, inizia una delle note digressioni che formano la struttura portante del romanzo. Se si segue la storia, l’accadimento tout court, ci troviamo di fronte al niente. Ndrja si addormenta col vecchio padre, ma il suo sonno è breve e decide di uscire e bagnarsi nel mare. E’ il luogo e l’occasione per ricordare le favole di Don Mimì sulle sirene, l’episodio di una eterea donna nuda chi si offre al loro impeto sessuale, la cruda animalità di una trapanese alla deriva con la sua barca, l’adescamento sensuale e carognesco di un gruppo di femminote che dopo il fottisterio rubano anche il pescato. Da pagina 620 ci troviamo a pagina 708 e Ndrja, alle prese con questi pensieri nell’acqua del mare, vede il padre che esce dalla casa e si dirige nella sua direzione’ per attendere l’alba.

In quello stesso momento, da qualche parte, nelle profondità abissali dello scill’e cariddi, si risveglia un mostro degli abissi, l’essere che da il titolo al romanzo, l’Orca, quella che dà morte, mentre lei passa per immortale: lei, la Morte marina, sarebbe a dire la Morte, in una parola. I cariddoti la chiamano ferone.
In quanto a ferocia, non ha nulla da invidiare alla balena bianca di Melville. Moby Dick, quando appare nelle acque dell’oceano, si fa precedere da un odore di terra che emerge. Il ferone si porta con sé una scia di fetore putrescente, una nuvola insopportabile di carne che si decompone. Sul suo fianco si apre un piaga procurata forse dallo scoppio di una mina, che non si rimargina più, ed è destinata a produrre un odore di cancrena insopportabile. L’Orca è della specie Horcinus che significa semplicemente che procura la Morte. Non per cattiveria o divertimento, ma per semplice natura.
Ammazza perché il suo compito è ammazzare. Solo in un caso ammazza con uno scopo preciso: è golosa di lingua di balena e perciò, se l’ammazza, lo fa per soddisfare una voglia personale, non per consumare il suo destino di procurare Morte. Che abbia deciso di fermarsi nello stretto è un mistero e i pescatori temono che la sua presenza, faccia sparire tutti i pesci e allontani dallo stretto il passo dello spada. Questo sostiene Luigi Orioles, il più autorevole dei pellisquadre, al contrario del Delegato di Spiaggia che minimizza e rassicura che ben presto l’orcaferone passerà lo stretto di Gibilterra e prenderà il largo nell’oceano, per fare il giro della Morte nei mari del mondo. Ma intanto, l’orca resta nello stretto, anzi fa avanti e indietro e gradisce proprio fermarsi spesso davanti alle case dei nostri pellisquadre, che ne controllano ogni mossa. E da quando l’orca, inabissandosi, come per trovare refrigerio fino a toccare il fondo, fa venire a galla migliaia e migliaia di esemplari di anguilla neonata, vera e propria manna per gli abitanti di quella costa, c’è qualcuno, come Cristina Schirà che avanza l’ipotesi che, sotto quel corpaccio maledetto e mostruoso di orca, si nasconda un’anima infelice del purgatorio, come potrebbe essere Ferdinando Currò, che con altri pellisquadre un giorno sparì nelle acque dello stretto.

Voglio segnalare pagine indimenticabili in cui le fere familiarizzano con l’orca. Qui l’autore mette in campo tutta la sua ironia per descrivere l’eccitamento che la schiera delle fere prova, a vedere l’azzurro stendardo dell’orca, lo zampillo alto più di tre metri, una colonna d’acqua che fa pensare ad un enorme membro di acqua avvulcanata. L’occasione è giusta per una digressione boccaccesca e leggiamo la storia di Peppino Papano, che avendo notoriamente la voglia che tutti chiamano del ciuco, per non sventrare l’esile cavità della moglie, s’ingegna a trovare un rimedio di sorprendente dolcezza.
Per il resto stiamo sempre a parlare di un animalone tremendo e solagno, che non conosce pianto né riso, né amici né nemici, né conosce se ci pensate, vera vita o vera morte.

Sono andato al cinema Barberini di Roma e ho visto il Cacciatore di ex. L’ho scelto per via dell’orario: dalle 15 e 30 alle 17 viene la signora delle pulizie e non so proprio dove cacciarmi mentre lei fa il suo lavoro. Per il resto il film è noioso e mediocre, come una brioche del giorno dopo: i protagonisti non si fanno mai una strusciata e non c’è neanche un fotogramma che ci regali una tetta o una coscia eburnea, la cui visione valga il prezzo del biglietto. Sono uscito dal cinema con l’intenzione di togliermi una voglia, di soddisfare uno sfizio e mi sono ricordato che mi aspettava il mio romanzo da leggere. Nella metropolitana ho pensato di trovarmi nelle acque dello stretto, sciacquarmi con le fere e fare giochi nell’acqua. Ho desiderato di essere con loro, di essere una di loro, di poter fendere l’acqua e l’aria come una gran ballerina, di ridere dei pescatori, di scodinzolare eccitato alla vista dell’azzurro stendardo dell’orca e prendere confidenza con le arcuate traiettorie da circense, di mangiare pesce crudo, scoreggiare e fare rutti proprio come fanno le fere, di ubriacarmi di pane tedesco imbevuto di aceto e darmi alla pazza gioia nello scill’e cariddi.
Forse sarà stata un’ubriacatura o la noia procurata dal ronzio delle migliaia e migliaia di fere ubriache ad aver convinto il ferone a prendere la velocita del sole e sparire nel mare largo verso Malta.
Di certo dopo la sua folle corsa, lo stretto torna alle sue abituali usanze, con le fere che fanno le dispettose e i pescatori che preparano le reti per potere finalmente tornare a pescare. C’è anche chi rimpiange quel ben di Dio di cicirella, anguilla neonata, che l’orca faceva galleggiare, ma qualcun altro ricorda che anche Mussolini regalò duemila lire per ogni figlio nato, salvo poi presentare il conto per spedirlo in guerra e farne carne da macello. Mussolini e l’orca sono ambedue al servizio della Morte: l’unica differenza è che il primo è mortale (fortunatamente) e l’orca è immortale.
In ogni caso si tratta di un falso movimento, perché l’orca, in un solo giorno, fa il giro della Sicilia e si ritrova di nuovo nello stretto, proprio nello stesso punto di prima, di modo che i cariddoti possano vederla e quasi toccarla, tanto è vicina.

Stamattina, sono sceso al bar, per via di un ciambellone molto gustoso che hanno, e mentre masticavo lentamente per trattenere il sapore più a lungo possibile, mi è venuto da pensare che forse si sta preparando qualcosa di spiacevole per il ferone. Poiché, abilmente e distrattamente, l’autore ci dice che una flotta angloamericana è arrivata nel porto di Messina, che Ndrja è stato mandato con un suo amico a vedere che sta succedendo lungo la costa e qui incontrano un culo grosso detto il Maltese, un ambiguo figuro che sta reclutando ragazzi per una gara di voga, che appena vede Ndrja se ne invaghisce; in più, dei commercianti di pesce pensano che vendere la carne del ferone sarebbe un grande affare e per questo assoldano Dum dum, un balordo bombarolo che colpisce l‘orca proprio dove ha la sua larga ferita, per cui la poveretta è costretta a guaire impazzita dal dolore, e poi c’è uno strano assembramento di fere che, come ubbidendo ad un cenno segreto, si danno appuntamento proprio nelle acque dove il ferone ha deciso di consumare la sua pena. Voglio augurarmi che l’autore non abbia in mente di far fuori l’orca: ciò che mi fa ben sperare sulla sua sorte è che, da quando l’orca è comparsa, da pagina 720 circa a pagina 890, non ha fatto altro che ripetere in ogni pagina che è immortale. Spero quindi che sia coerente. Non voglio pensare che l’abbia fatto per ingannare il fedele lettore.

Neanche per sogno. Non posso credere a quanto ho letto. Eh già! Non si scrivono, a caso, settecento pagine che parlano delle fere: un preambolo cosi lungo fino all’apparizione dell’orca, doveva pur avere una motivazione. Ed eccola qui che si rivela, con la ferocia che solo le fere possono avere. Come un esercito romano, o napoleonico, come un’armata di Alessandro o Carlo Magno, o forse semplicemente come un nugolo di vespe, così fitto da oscurare il sole o come un esercito sterminato di formiche all’assalto di un elefante, un ippopotamo, le fere iniziano ad allestire un piano che fa rabbrividire: aggrediscono il ferone nel punto in cui il suo corpo si assottiglia, per staccargli la coda con cui il ferone raggiungeva una velocità superiore a quella del sole. E con i loro dentini aguzzi, a turno segano la mezzaluna preziosa, riducendo l’animalone ad un corpo che a malapena galleggia, un moncone di carne nera e sconfinata, in balia del mare e di tutti i pesci affamati. E le correnti marine fanno pietosamente ruzzolare il corpo proprio sulla linea dei due mari, di fronte ai cariddoti, che dopo averne visto le imprese, ora assistono alla sua agonia, ai suoi lamenti di morte, che neanche il mare grosso riesce a soffocare.
Tutto è tragicamente meraviglioso. I delfini l’hanno proprio combinata grossa.
In un celebre quadro di Caravaggio Giuditta uccide il male, il comandante Oloferne, dal corpo possente e muscoloso. Giuditta appare minuta, diafana, eterea, tuttavia determinata nel suo gesto La spada non ha ancora tagliato il collo e Oloferne non è più vivo, ma non è ancora morto. Negli occhi c’è la visione della sua morte, un grido di terrore esce dalla sua bocca contorta e le braccia poderose vorrebbero opporsi alla morte, ma finiscono in un sussulto, uno spasimo che sarà l’ultimo. E’ in queste condizioni che si trova l’orca nelle acque bastarde dello Jonio e del Tirreno, un corpo morto che non è ancora morto. Un corpo che vorrebbe reagire, ma che non può opporsi neanche ad un’onda innocua. Può solo galleggiare nella pozzanghera del suo sangue, che si allarga sempre di più.
I cariddoti sanno che, se lasceranno marcire quel corpo, il loro mare sarà impestato per mesi e stanno pensando seriamente di portare l’orca a riva, vendere le tonnellate di carne e ricavare olio dal suo grasso e quant’altro dallo sfruttamento delle ossa.
Intanto lo zatterone degli inglesi, che fa la spola fra Sicilia e Calabria, si avvicina alla spiaggia. A bordo c’è il lardoso, detto il Maltese e il suo assistente chiamato Sanciolo. Per conto degli inglesi, stanno reclutando ragazzi siciliani capaci di remare in una gara di voga fra americani, inglesi e siciliani. Il Maltese stravede per Ndrja e per averlo in gara e disposto a tutto, a dargli anche mille lire e anche di più. I pellisquadre, per bocca di Don Luigi Orioles, resisi conto di quanto il Maltese brami le prestazioni di vogatore di Ndrja, cercano di sfruttare la situazione a loro vantaggio. Solo per fame sono stati costretti a cibarsi di carogne e sanno che un vero pellisquadre il cibo se lo procura con la pesca, ma un’orca di quelle dimensioni a portata di mano, è un evento eccezionale e pare proprio un peccato non approfittarne. Per questo decidono che il Maltese, con lo zatterone inglese, dovrebbe far arenare, davanti alla loro spiaggia, quel ben di dio di corpo mezzo vivo e mezzo morto dell’orca.
Un lungo preambolo di settecento pagine, in cui abbiamo conosciuto la guerra, la fame, lo strazio dei sopravvissuti, quel mare cosi bastardo dello stretto, lo strapotere, la strafottenza del delfino, fino a quando non appare l’orcaferone, la Morte dei mari. Il vero colpo di teatro è comunque lo scodamento dell’orca da parte delle fere.

Dopo questo terrificante evento, ogni digressione potrebbe risultare inutile, poiché nelle necessità del lettore è maturato, dopo 900 pagine, il bisogno di sapere quale fine sia riservata ai nostri personaggi. Il ritmo quindi non può più essere quello che è stato utilizzato in tutto il romanzo, dovrebbe essere meno prolisso. Invece, da quando Sanciolo sbarca a Cariddi con l’intento di assoldare Ndrja, fino a quando Ndrja non detta le sue condizioni per partecipare alla regata, da pagina 939 a pag 1166, l’autore si sfruculia di entrare nella testa di Ndrja e chiosa, filosofeggia, circoscrive, arzigogola, si diverte a visitare ogni dubbio, incomprensione, ambiguità, sospetto, risentimento che Ndrja coltiva nei suoi pensieri. Nel dialogo che ha con Sanciolo e con i pellisquadre, che ben consapevoli dell’occasione che l’orca offre, si aspettano che Ndrja si sacrifichi per la patria, e assecondi Il Maltese, che per lui sarebbe disposto a trovare anche il latte di uccello o a dare il bacsaide, come turpemente riferisce il viscido Sanciolo, si dissipa ogni intenzione realistica e tutto appare galleggiare in un onirico viaggio, in cui non sono previsti confini.

E’ l’unica zona in cui ho avvertito una stanchezza nella lettura, seppure qui non mancano amene pagine, in cui i pellisquadre discutono boccaccescamente sull’opportunità di Ndrja di concedersi al Maltese.
Il dialogo tra Ndrja e pellisquadre sullo sperone di roccia che si affaccia sullo stretto, occupa circa duecento pagine di digressione. L’autore pare architettare di proposito una provocazione: come se volesse dimostrare che i limiti della racconto possono essere sempre più lontani, i pensieri di Ndrja si intrecciano con l’ossessione ripetitiva di un incubo comatoso, in cui a tratti, i pellisquadre sembrano tutti anime perse sullo sperone di roccia di Cariddi, in attesa di passare nel mare di là, della Nonsenseria, del regno dei morti. Lo stesso mare diventa un immenso lago salato di riverberi accecanti, in cui c’è solo immobilità e silenzio, tranne l’orca che si inabissa e riemerge mentre l’acqua dietro di lei si solidifica come marmo. E’ come se l’autore, a questo punto della storia, abbia maturato la necessita di sfuggire alla costrizione di un sistema tolemaico della scrittura, e voglia di proposito sconfinare, provocando una rivoluzione copernicana delle parole, per allargare l’orizzonte degli approdi. E così le parole, con la loro ripetitività insistita, perdono unità, si slabbrano, si frazionano, perdono il loro originario senso, ne cercano un altro, diventano segni, graffiti, si trasformano in suono, in strappi di vento. A questo porta il tentativo di riuscire a sfondare il limite delle parole. Un tentativo che non credo sia riuscito.

Confesso che in questo delirio visionario, ho creduto, come lettore, che forse tutto lo scodamento non sia stato altro che un brutto sogno. In fondo sono dispiaciuto del terribile scodamento dell’orca e mi aspetto che l’autore, con un colpo di genio, faccia ritornare quella coda al suo posto e permetta all’orca di riprendere il suo viaggio negli oceani, ma purtroppo non è così.

Ndrja fantastica su cosa potrebbe fare con la somma di mille lire di premio: un pellisquadre non può che desiderare una barca, che per un pescatore diventa secondo i casi culla, bara o arca. In questo viaggio attraverso l’ossessiva ripetitività dei pensieri di Ndrja, l’autore ci dice che l’esile storia alla fine è sempre un pretesto per servire su un piatto d’argento la meditazione sull’uomo e sul suo destino. Sul nascere e sul morire.
Ndrja ha ottenuto che l’orca fosse spiaggiata e mentre i suoi pellisquadre, come essere lillipuziani si affannano a imbracare l’immensa carogna, si allontana con lo zatterone che lo porta a Messina. E così la morte in persona con il suo corpo sfama il popolo e si trasforma in vita. Da viva era morte, da morta è vita.

Dal mare può intravedere Marosa, la sua promessa sposa, che ha atteso che ritornasse dalla guerra, ricamando pesci da offrire al mare, al dio Nettuno, perché gli riportasse sano e salvo il suo uomo. E’ una fanciulla quando ritrova Ndrja che è tornato dalla guerra, una ragazza con la gioia di vivere, con le ansie e gli entusiasmi della sua gioventù e nel giro di poche ore se lo vede partire di nuovo . Quando lo zatterone si porta via Ndrja per la sua gara di voga a Messina, Marosa non è più la fanciulla che abbiamo conosciuto. E’ una donna fatta, che riesce a capire il senso del tempo e delle scelte che nella vita si fanno. E s’attacca al suo petto come una Maddalena che abbraccia il cuore sanguinante di Cristo Esci dalla porta ma a me dalla vita mi esci gli dice salutandolo. Marosa è l’unica in Cariddi a covare dentro di sé un senso di tragica premonizione, e mentre la partenza si trasforma per lei in una perdita irrimediabile di Ndrja, una spartenza, Marosa assume le sembianze di una Cassandra inascoltata nell’indifferenza del mondo.

Il capovoga Ndrja Cambria arriva a Messina, una città ridotta in macerie dal terremoto della guerra e dove l’aria ha il sapore acido e dolce della putrefazione delle arance, l’unica cosa che facilmente si può trovare per saziarsi. Viene sistemato con i suoi uomini nella casa Littoria del porto. Ndrja ha anche il tempo di scorgere Ciccina Circè che offre il suo corpo ai soldati inglesi: prima incantatrice di fere, ora incantatrice di inglesi e ritrova anche Boccadopa, con la sua gamba di legno e il suo compagno Portoempedocle. Per un attimo, la storia sembra avere una fine circolare, come se si debba necessariamente ritornare al punto iniziale del racconto. Non è così. Succede che nella notte il porto diventi un luogo in cui è facile morire e gli uomini selezionati per la voga, impressionati dalla morte di un giovane contrabbandiere, non hanno altra scelta che scappare.
Anche Ndrja e il suo amico Masino non hanno altra scelta che abbandonare il campo e tornare a casa. Prima decidono di andare a visitare il cantiere di Don Armandino Raciti il più grande mastro d’ascia, come ricordano tutti i pescatori di Cariddi per chiedergli a quali condizioni vorrebbe fare una barca per lui. Il mitico costruttore di barche è una larva d’uomo, che non è più in grado di fare niente, ma sua moglie, una donna di grande temperamento, conosce i segreti del marito ed è in grado di fare il lavoro a regola d’arte. Resta il fatto che Don Armandino Raciti, leggenda vera in quanto a costruire barche, è un uomo inutile: un segnale per tutti, che i tempi sono cambiati e comunque vada, niente sarà più come prima.
Ndrja è un uomo orgoglioso. Vuole mantenere la parola data: ritorna a Messina, ricerca uno ad uno gli uomini del suo equipaggio e, sotto lo sguardo incredulo del Maltese. li raduna nel porto. E tardi, domani ci sarà la gara e il nostro equipaggio, ha perso tempo prezioso per prepararsi alla gara, ma una prova si può fare, anche se il sole sta scomparendo. Ndrja affonda i remi nell’acqua seguito dai suoi uomini. Scivola la barca nell’acqua dolce del porto, sfiorando corpi freddi di navi da guerra, scivola sempre più veloce conquistando il largo, troppo veloce, non abbastanza per schivare il proiettile che parte dalla portaerei e scoppia sulla fronte di Ndrja, giusto in mezzo agli occhi.. Nella largasia di mare la barca se ne va seminando una scia di sangue , le parole diventano gocce di sangue La barca si trasforma in bara e nel mare nero come sangue aggrumato, imperterrita ride la fera. … blummarè, cacanido ,scazzipola, immelanzanato, improcintarsi, crastone, fattotumo, nemticchieria, iattante, disfiziat,o orbaria, solagna, spaurente, sanguoso …

Se chi si appresta a leggere questo romanzo, pensasse, anche per scherzo, motto di spirito, che l’orca, l’animalone marino, la vera orca insomma sia il volume stesso, per il peso, la mole, le pagine, sicuramente si spagnerebbe di brutto ad intraprendere la lettura. Consiglio di fare come quando ci si trova di fronte a un mare profondo, sconfinato, di lasciarsi lentamente cullare dalle onde, di scivolare senza la preoccupazione di galleggiare o meno, di pensare invece che ogni pagina, rigo, parola, siano un’onda leggera, una carezza, una coccola, un massaggio che si vorrebbe senza fine. Avere la fiducia di non affondare. Questo è il solo modo di addentrarsi nel romanzo e di restarci. Lasciarsi prendere, goderne, prendere tutto il tempo che ci vuole, come quando si entra nell’acqua di una piscina termale, e chiudi gli occhi e ti abbandoni come se ti adagiassi su un morbido cuscino.

Non ci avevo mai pensato, ma cosa possono essere le pagine di un libro, quando piace e ti appassiona, quando ti riempie, ti sazia, e ti fa rimuginare e cosa potrebbe essere quel gesto morboso di girare una pagina, carichi di desiderio, di svelamento? Ecco, forse un velo potrebbe essere la pagina, un velo che si toglie per scoprire il corpo intero di una persona amata. La lettura diventa così una spoliazione, un lento inesorabile spogliarello in cui ti illudi di trovare un piacere finale e quando arrivi alla fine, col corpo nudo che nulla può nasconderti, ti accorgi che tutto il piacere era nel gesto dello svelamento, nello scoprire parti del corpo, poiché nel momento in cui tutto è svelato, il libro è lì a testimoniare la tua solitudine, come quando, una storia d’amore finisce.

lunedì 31 maggio 2010

IL CARATTERISTA BASILISCO DEL CINEMA SCATURCHIO romanzo di Antonio Petrocelli - edizioni Hacca

Jonio Castellucci è davvero un personaggio che dice qualcosa di profondo sul nostro tempo. E’ un caratterista, un attore “minore”, uno che fa cammei. E’, insomma, un precario dell’arte. Lavora poco, rifiuta le parti umilianti, è ossessionato dalla banca che gli chiede con insistenza “un piano di rientro”. Jonio Castellucci è un meridionale che si muove tra la Toscana e Roma in cerca di giornate di lavoro. La sua vita trascorre tra un provino e i silenzi rancorosi con la moglie, tra una litigiosa riunione al sindacato degli attori e ricordi della propria infanzia lucana, tra faticose giornate di posa in giro per il mondo e tormenti sentimentali e famigliari. Quelli di Jonio Castellucci sono i pensieri nascosti e segreti di un saltimbanco del nostro tempo, di un artista epicureo che oscilla continuamente tra la massima “Vivi nascosto” e l’impulso a trionfare sulle scene. Perché Jonio è, allo stesso tempo, un Narciso sicuro del proprio talento e un disperato caratterista in cerca di soldi, che gli servono soprattutto per mantenere i suoi tre figli. Il romanzo di Antonio Petrocelli è la voce limpida e consapevole di un uomo del sottosuolo, è la spietata e divertente radiografare delle miserie, delle cattiverie, dei rancori, delle frustrazioni di un attore che, per troppe ingenuità e per troppi ideali, rimane ai margini dello star-system. Non mancano però scene esilaranti, fantastiche, surreali, a riprova del fatto che, probabilmente, la maschera di Jonio Castellucci è anche questo: quasi un cliché della istrionica tristezza del dietro le quinte di un attore “minore”, poco ricordato dalle folle e spesso sottopagato da produttori rapaci. Il caratterista basilisco del Cinema Scaturchio è un inno al cinema e al teatro, ma anche un anatema contro la crisi del lavoro in Italia e contro le troppe meschinità della vita. E’ un romanzo sul disincanto dei primi venti autunnali. E sul disamore crescente. E’, insomma, la storia di Jonio Castellucci, un personaggio indimenticabile dei bassifondi di Cinecittà.
Andrea Di Consoli

mercoledì 15 luglio 2009

giovedì 26 giugno 2008

Emozionante performance di Antonio Petrocelli

Nuova Cosenza – quotidiano digitale Cronaca Università
Inaugurata la mostra dedicata a Luciano Caruso
05/05 Con una performance dell’attore Antonio Petrocelli è stata inaugurata ieri sera, nella galleria d’arte del Centro Arte Musica e Spettacolo dell’Università della Calabria, la mostra dedicata a Luciano Caruso che propone circa 40 opere messe a disposizione da vari collezionisti. La mostra, coordinata dal prof. Vittorio Cappelli nell’ambito della rassegna "Filobus – percorsi nell’arte contemporanea", è stata inaugurata alla presenza della vedova del compianto Luciano Caruso, signora Sonia Puccetti; mentre delle brevi testimonianze sono state portate dai critici d’arte Tonino Sicoli, Paolo Aita. La mostra potrà essere visitata fino al prossimo 22 maggio, dal lunedì al venerdì dalle ore 9-00 alle 13-30, nonché nelle ore serale, solo in occasione di manifestazioni promosse dal CAMS. Particolarmente emozionante è stata la performance dell’attore Antonio Petrocelli che con la declamazione di alcuni testi su "Parole in libertà" con riferimento a particolari brani futuristi ha portato una ventata di realismo storico e di attualità visiva facendo apprezzare l’opera artistica di Luciano Caruso scomparso nel 2002.

mercoledì 9 aprile 2008

Petrocelli ha sapientemente cantato l'oralità del verso futurista - recensione di Antonello Morea

L’oralità del verso nell’interpretazione della poesia futurista di Antonio Petrocelli.

Miscela di teatro e poesia, nel tardo pomeriggio degli scorsi 5 e 6 aprile, a Dublino, presso lo University College Dublin (UCD) e l’Istituto Italiano di Cultura di Dublino, abbiamo assistito allo spettacolo di Antonio Petrocelli, "TOOMMM TOOO TOOM...PAROLE IN LIBERTÀ", recitazione e interpretazione di testi poetici facenti capo a importanti esponenti del Futurismo italiano, da Balla a Cangiullo, Depero, Papini e Marinetti. Ma prima di parlare dello spettacolo, vorrei fare una premessa su ciò cui esso ci ha portato a riflettere.
Per arcano paradosso, il primo manifesto del Futurismo, quello citato nelle antologie scolastiche di tutt’Italia, inizia con il verbo "cantare":
"Noi vogliamo cantare l'amor del pericolo".
Il verbo, poi, si ripete altre volte, a sottolinearne l’importanza e, ripetiamo, il paradosso:
"È il tramonto-direttore d'orchestra […]È lui che ferma a un tratto i timpani delle gamelle e dei fucili cozzanti, per lasciar cantare a voce spiegata sull'orchestra degli strumenti in sordina, tutte le stelle d'oro, ritte, aperte le braccia, sulla ribalta del cielo".
Il poeta, dice ancora Marinetti,
"Bisogna che […] si prodighi, con ardore, sfarzo e munificenza, per aumentare l'entusiastico fervore degli elementi primordiali.".
Questo perché i poeti futuristi devono, ancora una volta, cantare:
"Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro […] canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali […]", e così via.
Mi si chiederà: "ma di quale paradosso parli? Perché dovremmo leggerci un paradosso in queste parole?" Il paradosso nasce dalla contraddizione tra gli intenti distruttori e devastatori dei ponti col passato, con la tradizione secolare e accademica della poesia e dell’arte in generale a cui mira il futurismo ("un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia"; "Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d'ogni specie […]"; "Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo – […] il gesto distruttore dei libertari […]") e il suo tenace attaccamento al verbo "cantare". Il canto e, di conseguenza, l’oralità del verso, infatti, sono gli elementi della poesia degli albori, greca e latina, che proprio la modernità ha spesso tralasciato, schiacciando in un angolo d’ombra umida d’agonia il significato e l’intento comunicativo della poesia tradizionale. Proprio prendendo come modello l’avanguardia futurista, la poesia moderna, ignorando il verbo "cantare", si è, come dire, demusicalizzata, aggrinzendosi in angoli bui di non-senso, cerebralizzandosi all’inverosimile, facendo appello molto più all’intelletto che all’emozione e, dunque, dimenticandosi che musica e poesia furono confuse alla loro genesi.
L’aspetto stimolante, fascinoso e seducente dell’interpretazione della poesia futurista fatta da Antonio Petrocelli, avvenuta grazie all’efficace coordinamento tra Silvia Terribili, dell’Istituto Italiano di Cultura di Amsterdam e Bruno Busetti, direttore dell’Istituto dublinese, è stato proprio il poter assistere, per molti per la prima volta in assoluto, a quel "canto" di cui Marinetti parlava. Per tanti, siano essi esperti o semplici lettori, la poesia futurista ha sempre avuto una unica dimensione, quella visiva. Nelle scuole e nei licei non la si legge, la si guarda impressa sulla pagina, muta e inespressiva. Lo studente – e dubito che l’insegnante ne abbia una diversa comprensione – in quelle pagine del futurismo italiano non riesce a districarsi. Non hanno senso. Non sono, letteralemente, leggibili. Tutt’al più, come dicevo, sono guardabili come un quadro astratto e, ancora una volta, dunque, privo di senso. Quei segni, quelle indicazioni grafiche di ritmi e sonorità gutturali non hanno alcun significato se restano pure linee di inchiostro. Grazie alla splendida interpretazione generosamente regalataci da Petrocelli (attore di cinema, teatro e televisione, con un curriculum ricchissimo di esperienze e collaborazioni, dai film di Moretti, Bellocchio, Salvatores e Giordana a numerose produzioni teatrali italiane dei lavori di Sartre, Brecht e Jarry), per la prima volta quei segni guerrafondai e distruttori, quelle bombe ortografiche e calligrafiche di sillabe e parole in libertà, hanno assunto la loro reale forma. La forma che si nutre di ritmo e rumore, di metro e armonia propri. Certo, il ritmo che la poesia futurista impone non è quello aulico che la prosodia tradizionale modulava, ma un ritmo, diremmo, "in tempo reale", fatto d'accelerazioni, velocità, indugi e pause, dei toni concreti dell'eloquio classico e la simultanietà di una o più voci fra loro dìssone (come nella riuscitissima poesia di Balla, Macchina da scrivere, in cui Petrocelli ha coinvolto dodici persone del pubblico per eseguirla nella sua natura polifonica). Eppure, nonostante la sua natura di ritmo alterato rispetto a quello tradizionale, proiettato verso i lidi moderni del verso libero, l’interpretazione di Petrocelli ci ha mostrato intatti i nervi strutturali della poesia in quanto tale, ossia le sue qualità orali, comunicative, tipiche del canto e dell’arte della recitazione, che la consuetudine poetica moderna, in particolar modo quella che in Italia si è sviluppata tra gli anni 60 e 70, aveva tralasciato a favore dell’elemento cerebrale che rifugiva la comunicazione. Celebre la prefazione ai Novissimi, in cui Giuliani inneggia al
"montaggio asemantico dei segni" e alla pura "negazione della comunicazione esistente". Certo, prima ancora di Giuliani, fu lo stesso Montale a dare ragione ad un atteggiamento della poesia non incline alla "comunicazione": "Nessuno scriverebbe versi se il problema della poesia fosse quello di farsi capire". È breve il passaggio da questa affermazione alla conclusione triste riguardo al ruolo ridotto all’osso della poesia di oggi, così breve che ci appare del tutto logico e consequenziale il fatto che oggi la poesia non goda più di un vasto pubblico.
Dopo la performance di Petrocelli viene però naturale anche la speranza che un recupero non solo è in atto, ma c’è sempre stato. È più che altro una questione di prospettive. Il Novecento dovremmo quindi leggerlo sotto altre ottiche, forse. Probabilmente ci leggeremmo un instancabile tentativo di dialogo con la poesia tradizionale. Più che poesia "del" Novecento (riprendendo il celebre titolo di Mengaldo), dovremmo forse parlare di poesia "nel" Novecento. Più che sottolineare le distanze dal passato, dovremmo forse curarne le dinamiche di dialogo, sia che si tratti di un dialogo di netta opposizione, come nel caso del futurismo, sia che si tratti di un più piano dialogo di interscambio, come per esempio vediamo nella poesia di diversi, tantissimi mi viene da pensare, poeti del secolo appena trascorso, da Gozzano a Saba, da questi a Penna, da Pasolini a Bellezza, da Amelia Rosselli a Patrizia Valduga e così via.
Forse, veramente, l’anello mancante risiede nel recupero di un elemento senza il quale l’arte poetica perde, se non tutto, molto del suo senso: l’elemento orale.
I due pomeriggi regalatici da Petrocelli resteranno per tutti gli ascoltatori (non più semplici "lettori") a testimoniare il valore assoluto del verbo "cantare" usato da Marinetti e, con esso, la forza posseduta dalla parola poetica, potenziale espressivo assoluto. L’attore ci ha sapientemente "cantato" il dirompere dell’oralità futurista, che nasce dalla diversità della pronuncia, si forma sulla pronuncia, sul ripetere, esattamente come, quasi mille anni fa, già faceva, il più famoso poema epico della letteratura francese, la Chanson de Roland, in cui le riprese e le ripetizioni sono assai marcate perché non è fatta per essere letta in silenzio ma recitata, cantata, per l’appunto, ed ascoltata. Ecco quindi che l’oralità della poesia di Depero è esplosa nelle orecchie dell’ascoltatore, marcando i suoi campi comunicativi. L’interpretazione di Petrocelli la ha resa evidente, chiara, lucida, enucleandone le sperimentazioni sul corpo della parola, sul gesto, sulla traccia disegnata e sulla voce, sfociando in quell’universo dove i confini tra musica, teatro e poesia si sono ricondotti al loro stato primordiale di magma unico e indistinto, come il virare tra i colori dell’iride nello spettro visivo, mutevoli ed interscambiabili. La poesia si è trovata naturalmente commista al canto, alla musica, alla preghiera, al "mantra", direbbe Zanzotto.
Il pubblico si è visto proiettato nel clima euforico dell’inizio del secolo scorso e si è lasciato guidare dall’arte di Petrocelli come attraverso un itinerario turistico a metà tra il dotto e il divertito. I luoghi, nella fattispecie, per esempio, della Firenze di Papini o la Napoli descritta da Marinetti, si sono così mostrati nella frescezza delle loro essenze, con i loro rumori e i loro fiori, i loro umori di uomini vivi e i loro fantasmi che la parola poetica "detta", anche gridata, ha sottratto all’oblio e riconsegnato al mito. Sì il mito, nucleo pulsante della poesia di tutti i tempi, è esattamente il risultato della sottrazione della cifra "orale" dalla nozione, più piatta, di pagina stampata. Per chi assiste ad una lettura o semplicemente per chi legge in proprio a voce alta, la poesia risveglia il suo arcano legame col suono, riappropriandosi del suo elemento reale, il ritmo, la musicalità della parola, dove i significanti si fanno avanti non più spogli ma vestit di significati veri e propri.
La riflessione che se ne trae ha due punti importanti di arrivo. Il primo è che non è possibile concepire un progresso in poesia dimenticando le sue radici. Un dialogo, sia pure di totale opposizione come avveniva con il futurismo, è necessario. Il secondo è che la poesia ha bisogno di riacqustare una "voce" in tutti i sensi, particolarmente da noi in Italia. Soprattutto la modernità pare che si sia dimenticata che la Commedia dantesca era letta per strada, a Firenze, da Boccaccio e che attorno all’umanista nugoli di gente comune si creavano, attratti dal senso che la parola poetica suscitava in loro, dall’irresistibile nastro sonoro che in quell’istante, proprio perché fornito di un corpo e una voce reali, instaurava l’irrecidibile legame tra poeta e lettore, tra poesia e orecchio. Ciò di cui dovremmo riappropriarci, dunque, è l'oggetto stesso della poesia: non più tanto, e non più del tutto, l’asmatica lettura muta di una pagina, ma lo spazio dinamico d'un "teatro della parola", dove il poeta-istrione, o il lettore-istrione, interpreta le varianti infinite insite nei testi poetici di tutti i tempi, da quelli danteschi a quelli di Magrelli. Così soltanto, forse, la poesia potrebbe uscire dal cunicolo buio in cui agonizza e dal silenzio: fuori a guerreggiare di nuovo nel mondo, a "cantare l'amor del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerità".
Antonello Morea.

Antonio Petrocelli affascina in Olanda - recensione di Silvia Terribili

NFORM - N. 235 - 18 novembre 2005
CULTURA ITALIANA
Recital di poesie futuriste ad Amsterdam e Rotterdam
Antonio Petrocelli affascina in Olanda con le sue Parole in libertà
AMSTERDAM - Un paese come l’Italia che spende senza batter ciglio 1200 milioni di euro per una missione di guerra, si rivela poi incredibilmente restio a scucire pochi spiccioli per organizzare una serata di poesia.
Per fortuna uno spettacolo di questo tipo costa poco, si può fare ovunque, in qualsiasi sala, anche senza luci e effetti speciali. E può risultare uno spettacolo straordinario, avvincente, affascinante.
Sto parlando di Parole in libertà, la lettura di poesie futuriste che Antonio Petrocelli, attore di cinema, teatro e TV ha proposto il 5 e 6 novembre 2005 in Olanda a Amsterdam e Rotterdam su invito dell’Istituto Italiano di Cultura e della Dante Alighieri.
Antonio Petrocelli è un attore fiorentino di origini lucane, con alle spalle una consolidata carriera cinematografica in più di 50 film con i principali registi italiani come Nanni Moretti, Gabriele Salvatores, Marco Bellocchio, Liliana Cavani e Enzo Monteleone e molti altri, nonché un discreto curriculum teatrale in circa 40 produzioni maggiori.
Essendo legata da personale amicizia a questo personaggio, e ritenendo che un attore come lui, con le sue potenzialità espressive, può permettersi solo di essere bravo, sono sempre molto esigente nel valutare le sue prestazioni professionali. Se in un film o uno spettacolo teatrale o una lettura poetica Antonio non mi convince, sono capace di scrivergli due cartelle di osservazioni gentili ed educate, ma piene di critica feroce.
Credo che ormai Petrocelli sappia bene che, se commette qualche faux pas, sono la prima a farglielo notare, almeno sul piano artistico.
Ma veniamo alla serata, dopo un primo avvio, peraltro brillante da parte dell’attore, ma accolto da prudente scetticismo da parte mia, sono stata costretta a capitolare e ho cominciato a ridere e divertirmi tanto da desiderare che quello show non finisse mai.
Il punto di non ritorno l’ho toccato con la declamazione della Canzone Rumorista seguita dalla Verbalizzazione astratta di signora di Fortunato De Pero. La forza di questi pezzi sta nel bellissimo connubio tra associazioni di idee, allusioni e ironia che li trasforma in una specie di corteggiamento giocoso nei confronti del pubblico, che non puo' più resistere e restare serio ed è costretto a lasciarsi coinvolgere, a soccombere alle sollecitazioni sempre più incalzanti dell’artista.
Una grande varietà di spunti e di acrobazie vocali viene offerta da Tramvai (al quale il poeta rivolge un saluto “metallico” a cui il tram -a modo suo, come potrebbe fare un tram quindi- risponde) e dai Colori, sempre di De Pero, in cui, in un bellissimo intreccio di poesia e astrazione filosofica, i colori vengono descritti e visualizzati lasciandosi guidare dalle associazioni mentali suggerite dalle sillabe, e dai suoni delle onomatopee, nate da una immaginazione geniale e a metà strada tra la poesia e la musica. Come si rappresenta il nero con la voce, e il grigio, e il rosso? Trattando i colori come fossero spartiti musicali che il fine dicitore futurista legge ovvero suona come fossero una frase musicale.
La poesia futurista sperimenta in continuazione le immense possibilità espressive non solo della parola, ma anche delle sillabe, dei suoni e delle unità minime di significato, scartando continuamente e saltando vivacemente da un campo semantico all’altro. Lasciandomi anch’io guidare da associazioni di idee, potrei ricollegare la loro operazione alle tecniche di priming con cui in psicolinguistica si sperimentano gli effetti delle parole sull’emisfero destro del cervello.
Antonio ci ha poi proposto la Canzone Pirotecnica di Cangiullo che è uno tra i pezzi che mi hanno colpito a prima vista. Giuro che, se chiudo gli occhi, Antonio mi fa « vedere » i fuochi d’artificio, i più belli, quelli non industrializzati, quelli dei ricordi delle feste di ferragosto al mio paese.
La Piedigrotta di Cangiullo è un pezzo frenetico e urlato in cui esplode tutta la napoletanità del poeta, in un ritmo sanguigno e direi quasi orgiastico che travolge lo spettatore.
Il recital si è concluso con due pezzi marinettiani, Spiralando sul porto di Napoli e Bombardamento con cui il brillante Marinetti (e il suo non meno brillante interprete) fa sfoggio della sua arte declamatoria e teatrale e attraverso sorprendenti “corridoi di analogie” e continui scarti semantici si rivolge direttamente agli amici e agli artisti che lo ascoltano.
E’impossibile declamare poesie futuriste se uno non ci crede veramente, se non si concede al pubblico, se non si espone e se non rischia. Non è facile essere presi sul serio dal pubblico proponendo testi come “zin zuozi zuazi zuezi…”. Ed è assolutamente impossibile far ridere se non si è bravi a recitare come Antonio. E cosa dire dell'Inno alla bajonetta e di tutta la gamma delle Sensazioni di fiori, vetri e metalli, pezzi virtuosistici di grande effetto, declamati o forse dovrei dire suonati mirabilmente dal nostro strumentista futurista.
La cura del particolare, l’attenzione ai dettagli senza perdere di vista l’unitarietà del proprio discorso. Anche in questo Petrocelli si è mostrato all’altezza del compito. L’abito di scena ad esempio, una camicia bianca con su stampati asimmetrici riquadri di parole in libertà, lontano da facili esagerazioni, niente trovate sopra le righe, il fascino insostenibile della leggerezza, della semplicità. Lo spettacolo di Antonio è racchiuso nell’energia del suo corpo, nella sua faccia, nella sua voce.
Antonio gioca con il pubblico, i suoi sguardi sono provocatori, una sfida continua a 360 gradi, sono sollecitazioni che arrivano al corpo, alla mente, all’anima. La comunicazione futurista è un’arma di seduzione totale, qualcosa che fa pensare al volumetto marinettiano : Come si seducono le donne. Come si seduce lo spettatore. “Bisogna continuare a insistere, esasperare, perfezionare il piacere “ dice Marinetti e il nostro fine dicitore insiste, in un’escalation di sollecitazioni sonore, visive, olfattive, dinamiche e tattili, in un’esplosione felice dei sensi.
Lo spettacolo è un insieme di gioco e riflessione sulla capacità di evocazione della parola nelle più sottili sfaccettature, uno studio ricercatissimo sulle potenzialità dell’onomatopea, qualcosa di molto semplice e raffinato allo stesso tempo. Io credo che esibizioni di questo tipo dovrebbero girare di più in Italia e che conquisterebbero subito il pubblico attento che ha voglia di giocare, per l’immediatezza e la giocosità e la leggerezza del messaggio. Divertimento allo stato puro, condito sapientemente da frecce e understatement che ti accendono dentro il sorriso e la voglia di vivere.
Riscoprire l’immenso patrimonio futurista, lavoro che Antonio pazientemente ha fatto riandando a scovare autentici “spartiti” futuristi ingiustamente dimenticati uscendo fuori dalle convenzioni e dal mainstream. Qualcosa di molto fresco, di originale, di grande effetto. Non dimentichiamo che il futurismo è stato forse l’ultimo grande movimento artistico europeo e internazionale caratterizzato da una incredibile libertà espressiva. Un momento giocoso in cui artisti di tutte le discipline in tanti paesi europei si sono riconosciuti e ispirati a vicenda. Non dimentichiamo che la ventata di libertà e di anticonformismo ha segnato anche un’importante fase liberatoria per l’emancipazione e la creatività femminile.
E, perché nell’attuale fase di riflusso post-femminista, non torniamo a valorizzare i testi e i lavori delle artiste e parolibere futuriste? Sarebbe un’operazione interessante proprio oggi in un momento in cui il ruolo della donna nell’immaginario mediatico è riprecipitato ai minimi storici, a livelli intollerabili di luoghi comuni, e stereotipi fortemente penalizzanti.
Antonio non è solo un abile performer futurista, ma anche ottimo attore e autore. Dopo il successo del suo primo romanzo autobiografico Volantini, ha nel cassetto un nuovo romanzo che è un’introspezione sulla condizione dell’attore e una dichiarazione d’amore incondizionato per il cinema e per tutto ciò che esso rappresenta.
Il suo secondo romanzo ha tutte le carte in regola per diventare un bellissimo film, se solo Antonio trovasse quattro o cinque amici disposti a partire per questo viaggio, persone con la sua stessa bravura e genialità che non avessero paura di realizzare un sogno.
Nel cassetto Petrocelli ha anche il Runzuliante, monologo teatrale basato sul Reduce del Ruzante, tradotto e recitato in dialetto lucano, la lingua madre dell’attore. Un testo tragicomico e profondo che può considerarsi una dichiarazione aperta di condanna di tutte le guerre.
Insomma, Antonio Petrocelli ci sa fare. Come attore, come autore, come performer futurista, come artista sincero, che sa trasmettere il senso del bello. Complimenti per uno spettacolo che richiede grande virtuosismo, ma non te lo fa pesare mentre ti stupisce e ti conquista per la varietà, la genialità, il perfetto dosaggio di eros e ironia. Bravo. (Silvia Terribili - Radio Onda Italiana, http://www.ondaitaliana.org/./Inform)
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martedì 8 aprile 2008

CURRICULUM

Elisabetta Masotti e Studio franca di meglio & C.
Viale del Vignola, 70 – 00196 Roma
06 32651631 fax 06 32651784
studio@elisabettamasotti.191.it

ANTONIO PETROCELLI
Lingue : inglese e francese
Dialetti : meridionali/toscano
TELEVISIONE
Delitto in via Teulada A.Lado
Colomba G. Battiato
Don Sturzo G. Fago
Effetti Personali G. Bertolucci
Il viaggio difficile G. Pelloni
Ha partecipato ai varietà "Domani si gioca" e "Fuori Orario"
Un poliziotto una città serial 13 ep. RAI 2 M. Rotundi
Il giudice: Il caso Corderi G.L. Calderone
Felipe ha gli occhi azzurri 2 F. Farina
Michele va alla guerra F. Rossi
Il caso Redoli M. Martelli
Indagine al Microscopio G. Lazotti
Una donna per amico 3 M. Graffeo
Cuore M. Zaccaro
Benedetti dal Signore F.Massaro
Augustus R.Young
Iacchetti Night show per la TSI
La Omicidi serie TV regia R.Milani
Il mammo 1-2-3 sit-com con E.Iachetti regia M.Simonetti
I Cesaroni 1(t.p.) serie TV regia F.Vicario
I Cesaroni 2
I Cesaroni 3
La Provinciale regia P. Pozzessere
Quo vadis baby per sky fiction regia G. Chiesa
CINEMA
L’appuntamento Biagetti
I Carabinieri F. Massaro
Fiore o frutto R. Miti
Io Chiara e lo Scuro M. Ponzi
Gli occhi la bocca M. Bellocchio
Segreti Segreti G. Bertolucci
Mai con le donne G. Fago
Il ten. dei carabinieri M. Ponzi
Man on fire E. Chouraqui
Notte italiana C.Mazzacurati
Domani accadrà D. Lucchetti
Strana la vita G. Bertolucci
Caruso Pascosky F. Nuti
Palombella rossa N. Moretti
Il prete bello C. Mazzacurati
Willy Signori F. Nuti
Il portaborse D. Lucchetti
Donne con le gonne F. Nuti
Un’altra vita C. Mazzacurati
Dove siete, io sono qui L. Cavani
Caro Diario N. Moretti
Sud G. Salvatores
Pasolini, un delitto italiano M.T. Giordana
La Scuola D. Luchetti
La seconda volta M. Calopresti
Vesna va veloce C. Mazzacurati
Il re di Rio G. Veronesi
L’uomo d’acqua dolce A. Albanese
Santo Stefano A. Pasquini
Il signor Quindici Palle F. Nuti
Ormai è fatta E. Monteleone
La stanza del figlio N. Moretti
Il Partigiano Jhonny G. Chiesa
Azzurro D. Rabaglia
Caruso, zero in condotta F.Nuti
Ribelli per caso V.Terracciano
El Alamein E.Monteleone
Cattive inclinazioni P.Campanella
Tre giorni d’anarchia V. Zagarrio
Lavorare con lentezza G. Chiesa
Il Caimano N. Moretti
TEATRO
L’ingranaggio Sartre
Pittura sul legno Bergman
La notte dei carnefici Giorgio Celli
La bottega del pane Brecht
L’eccezione e la regola Brecht
Il Drago Schwarzs
La Peste Camus
Ubu re Jarry
Notte con ospiti Weiss
Piedigrotta Cangiullo
Chiar di luna futurista autori vari
Dolce amore poesia Caruso
Pastikke Benvenuti
Chi ha paura di J. Malik Jiga Melik
Io patria e famiglia A. Fago
Tropico di Matera A. Petrocelli
Puzza di basilico A. Petrocelli
Risotto F. Beggiato
L’incompiuta di Labiche Labiche
Il meraviglioso Stalin A. Petrocelli
Sottobanco D. Starnone regia D. Lucchetti
Un virus nel sistema regia M. Navone
Notte spersa radiodramma di Andrea di Consoli e Antonio Petrocelli
Declamazione Futurista di Antonio Petrocelli
Tesi di Laurea in Lettere, indirizzo storico, dal titolo "Lotte per la terra e l’imponibile di Manodopera nel Metapontino 1943/1953".
Autore e regista del cortometraggio "Il corpo del Che" presentato alla Mostra Cinematografica di Venezia 1996, nella sezione Finestra sulle immagini.
Vincitore del Premio Solinas sezione Racconto Cinematografico con il soggetto "All’alba il pane bianco" scritto con Franco Girardet.
Autore del romanzo "Volantini ora tocca a me partire…"
prefazione di Adriano Sofri
CalicEditori - Premio Libernauta 2004